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La Provincia Pavese del 18-01-2018

Immagine di occhio e retina«Ridare la vista ai ciechi d'ora in poi non sarà più un'esclusiva biblica o fantascientifica». Lo assicura il professore Guglielmo Lanzani, coordinatore del "Center for nano science and technology" dell'Istituto italiano di tecnologia, che ha sede a Milano. Lanzani, infatti, collaborando con il Centro per lo studio delle sinapsi di Genova, guidato da Fabio Benfenati, e con il chirurgo oculista Grazia Pertile dell'ospedale Negrar di Verona, sta mettendo a punto una protesi composta da materiali organici in grado di restituire l'acuità visiva ai pazienti diventati ciechi a causa di retiniti pigmentose o degenerazioni maculari. L'apparecchio è ancora in fase di sperimentazione, ma per ora sembra funzionare benissimo su ratti e maiali. Per questo sono sempre più vicini i test sull'occhio umano. Lanzani ne parla oggi, alle 18, al collegio Cairoli di Pavia, dialogando con il professore emerito Giorgio Guizzetti.

Professore Lanzani, da cosa è composta questa protesi? E come agisce?

"È costituita da un substrato di seta e polimero attivo, semiconduttori organici a base di carbonio, cioè lo stesso atomo alla base delle molecole biologiche della vita. Tale dettaglio le permette di non venire rigettata nel momento dell'impiantamento nell'occhio, né di creare infezioni. L'apparecchio è una specie di dischetto flessibile che viene inserito tra la coroide e la retina. Viene sistemato esattamente dove in precedenza si trovavano i fotorecettori che, nei malati di retinite pigmentosa o degenerazione maculare, non ci sono più. Si collega con le cellule viventi rimaste e sostituisce i fotorecettori originari. Siccome resta in posizione subretinica, ossia sotto la retina, permette tranquillamente i movimenti naturali dell'occhio, il che è un'importante vantaggio per il paziente, vantaggio che ci rende competitivi nei confronti di altre protesi realizzate da altri studi di ricerca».

Si spieghi.

"Esistono membrane artificiali epiretiniche, già in commercio, che vengono posizionate sopra la retina e collegate al nervo ottico: danno una qualità visiva mediocre, di luci e ombre, e impediscono i liberi movimenti, richiedendo appositi occhiali con telecamere e complessi software informatici per permettere al cervello di leggere i segnali delle immagini esterne. La nostra protesi, al contrario, consente una visione completamente autonoma».

Come vanno le sperimentazioni sugli animali?

"È da un paio di anni che ci stiamo lavorando e stiamo ottenendo risultati promettenti. Ammetto che siamo più abili con i ratti: li modifichiamo geneticamente per averli con casi di retinite pigmentosa e li operiamo. Dopodiché, attuiamo una serie di analisi indirette per valutare l'entità del riacquisto della vista, perché chiaramente gli animali non parlano per riferirci se ci sia stato o meno un cambiamento visivo di qualche grado. Comunque, reputiamo che il recupero sia del 60 o 70% considerando, inoltre, che la protesi è relativamente piccola, in quanto occupa per adesso solo il 10% della superficie complessiva. Per quanto riguarda invece i maiali, li stiamo usando per perfezionare la tecnica chirurgica, che è abbastanza complessa: approfittiamo del fatto che hanno un occhio più simile a quello umano».

Quali sono le tempistiche per provare la protesi sull'uomo?

"Speriamo in un anno di farcela. Ci auguriamo che il 2019 sia l'anno buono. Stiamo già compilando le pratiche e richiedendo i permessi, ma sa, abbiamo ancora tanto da lavorare e numerose questioni da risolvere».

Ad esempio?

"Innanzi tutto dobbiamo riuscire a capire per quanto tempo il nostro apparecchio in carbonio e seta è in grado di svolgere il suo lavoro. Nei ratti non si può fare uno studio a lungo termine, però sappiamo che dura almeno per sei mesi, nel migliore dei casi per nove. Poi, è necessario che raffiniamo la tecnica chirurgica. E la sfida più complessa è costruire la protesi su un'area più grande, perché per ora risulta di certo troppo piccola per l'uomo».

di Gaia Curci

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