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La Repubblica del 13-01-2018

Immagine di un occhio umanoStoria di ricercatori: Maria Rosa Antognazza.

Ci sono luoghi in cui la luce non arriva più e, pare, sia destinata a non tornare. Come sull'ultimo strato di cellule della retina di chi ha perso la vista, i fotorecettori che avrebbero il compito di assorbirla e trasformarla in segnale elettrico da inviare al cervello: succede in chi ha avuto una retinite pigmentosa o ha subito la degenerazione della macula.

Per Maria Rosa Antognazza, ricercatrice dell'Istituto italiano di tecnologia, la luce e il buio sono come tessere dello stesso puzzle: i pezzi sono sul tavolo e devono solo (solo?) essere incastrati. Fisica, dottorato al Politecnico di Milano e specializzata in spettroscopia ottica, lavora nell'edificio che si trova all'ombra del cosiddetto "Cremlino", la struttura con due torri che svetta all'inizio di via Celoria. Il suo principale strumento di ricerca sono dei materiali plastici: polimeri con proprietà speciali, capaci di assorbire la luce del sole e trasformarla in altre forme di energia. «Tutti pensano che la plastica non sia in grado di condurre energia elettrica: in realtà ci sono alcuni materiali, i polimeri coniugati, caratterizzati da una particolare struttura chimica che si comportano come semi-conduttori», spiega. Non solo. A rendere questi materiali portentosi è la loro biocompatibilità, ovvero la capacità di essere accettati di buon grado dalle cellule. L'idea a questo punto si capisce da sé: fare sì che i materiali, una volta impiantati nella retina, siano in grado di sopperire al ruolo dei fotorecettori umani che non funzionano più. E quindi restituire la vista.

Tornando alla metafora del puzzle, i pezzi per arrivare al risultato finale sembrano esserci tutti. I primi esperimenti sono stati fatti su animali da laboratorio, presso l'Iit a Genova e in collaborazione con l'Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, a Verona. Nei ratti ciechi è stato provato che alla corteccia visiva, dopo l'impianto dei materiali nella retina, arriva il segnale elettrico.

Ma sono tornati a vedere davvero? «Difficile a dirsi, è però certo che non solo percepiscono differenze di intensità - prosegue Antognazza -, ma anche le forme. Dopo l'impianto sono stati fatti degli esperimenti di acuità visiva e comportamentali che hanno ricostruito il segnale elettrico della corteccia visiva. Si è visto che veniva ristabilita la sensibilità al contrasto.

Un'informazione più chiara arriverà dagli esperimenti preclinici sugli umani, tuttavia questo è un risultato già assodato che dice che una sorta di acuità visiva è ristabilita». Quindi il puzzle è ancora tutto sparpagliato: Antognazza e i suoi ricercatori hanno messo insieme una parte, ma si devono incastrare ancora molti pezzi.

«Sulla parte della retina c'è tanta ricerca da fare - aggiunge - ci sarà da spostare gli studi dai ratti ai maiali e si dovrà implementare e ingegnerizzare la protesi. Poi si proveranno in umano. E infine ci sarà da superare quella che in gergo tecnico viene definita la "valle della morte": ovvero completare il trasferimento tecnologico e colmare la distanza tra il lavoro di ricerca e l'arrivo sul mercato».

I polimeri coniugati però promettono anche altre meraviglie. E possono tornare utili tutte le volte che si vuole dare un comando a delle cellule, accendendo o spegnendo la luce. «In questo momento mi sto focalizzando sulla possibilità di controllare la differenziazione di cellule staminali con impulsi ottici - aggiunge Antognazza - Vogliamo capire se la luce assorbita dai nostri materiali possa indirizzarli in una direzione piuttosto che in un'altra. E abbiamo dei dati preliminari promettenti in questa direzione».

Luce che scompare, che torna o che diventa uno strumento per cambiare direzione alla vita. In meglio. «Prima di iscrivermi all'università volevo studiare beni culturali - sorride Maria Rosa - perché l'altra mia passione sono sempre stati i colori. Alla fine ho preferito fisica. Ma non mi sono allontanata tanto, non trova?».

di Luca De Vito

 

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